The Girl with the Dragon Tattoo, di David Fincher


Cio che è Nascosto nella Neve, Vien Fuori nel Disgelo.

"Pensavo di esser andato a vedere la rappresentazione del secondo libro, invece ho visto... una sòla". Questa è l'opinione di uno di quei fessacchiotti che Cinematografo insegue all'uscita dalle sale. L'opinione di uno che non sapeva cosa stava per vedere, non sa cosa ha visto e non avrà mai nessun gusto nella scelta del copricapo.
The Girl with the Dragon Tattoo (o Millennium - Uomini che Odiano le Donne), come sanno ormai tutti tranne il tizio di Cinematografo, è la trasposizione made in U.S.A., con la pecunia di Columbia Pictures e Metro-Goldwyn Mayer e il genio di David Fincher (Fight Club, The Social Network), del primo capitolo della trilogia Millennium di Stieg Larsson. E tutti a chiedere "ma con il recente film svedese, c'era bisogno del remake?". Perché, c'è per caso bisogno di Cinematografo?
E comunque sì, in questo mondo c'è un disperato bisogno di Fincher e no, in questo mondo non c'è bisogno di Gigi Marzullo e di Anselma Dell'Olio. E giù tutti a dire che Stieg Larsson è sopravvalutato, che quando lo dicevo io però non andava bene. Allora no, allora in verità vi dico che Uomini che Odiano le Donne ha due imponenti punti di forza: a) è un thriller nel quale le moderne tecnologie si applicano a prove e fatti avvenuti nel 1966; b) è un thriller con dei personaggi coi controcazzi.


Venendo alla pellicola (che effettivamente dovrebbe essere l'argomento di questo post), è chiaro, chiarissimo, fin dagli intensissimi, magnetici, oscuri titoli di testa che Fincher ha messo a punto l'ennesimo gioiellino. La storia (sempre per il tizio di Cinematografo di cui sopra) è incentrata attorno ad un giornalista, Blomkvist, che, tradito da una fonte e allontanato dalla sua rivista, viene chiamato ad indagare sull'avvenuta (1966) scomparsa della giovane Harriet "del cazzo" Vanger. Mikael Blomkvist si trova quindi a far luce sulle beghe di una famiglia anomala e astiosa, avvalendosi dell'aiuto della ventiquattrenne Lisbeth Salander, hacker dal passato e l'aspetto oscuro e personaggio più che border-line. Una regia, quella di Fincher, trabordante di accorgimenti tecnici, di collocamenti insoliti di macchina, di dettagli ben posizionati e riservati agli occhi allenati di chi è in grado di farsi condurre nella storia come in un giallo d'altri tempi. Fincher riesce a far procedere di pari passo l'indagine investigativa e l'indagine interiore dei personaggi, che vengono svelati a ritmi alterni, talvolta con introduzioni sottili, talvolta con violenti scossoni. Le sequenze clou, quelle che si aspetta chi conosce già la storia (quindi tutti eccetto il fessacchiotto di Cinematografo) rendono egregiamente tensione ed estetica. Di sensazionale impatto la colonna sonora, firmata da Atticus Ross e Trent Reznor, quest'ultimo omaggiato dalla t-shirt dei suoi Nine Inch Nails indossata da un personaggio secondario.
La sceneggiatura di Steven Zaillian (Moneyball) attenua il personaggio di Mikael Blomkvist (Daniel Craig), che nel romanzo, così come nella pellicola svedese, risulta invece un po' amorfo (si lascia scegliere dalle tre donne, ma non è in grado di scegliere). Rooney Mara (The Social Network) dà un'interpretazione sublime di Lisbeth Salander e da un inutile e mass-mediatico confronto con la stessa prova di quella capocchiona di Noomi Rapace esce vincitrice. La Mara riesce a regalare una maggiore fragilità a questo personaggio che "ha già avuto una vita difficile", riesce a renderlo più reale, più umano, più vicino.
Fotografia, montaggio e sonoro contribuiscono ad innalzare il livello della pellicola, che ha (e avrà) il gran merito di essere un film di massa (la Metro-Goldwyn Mayer, Larsson, le lesbiche...) per specialisti (Fincher, Cronenweth, Reznor).
La scena finale*, tratta dal romanzo e volutamente omessa dalla pellicola svedese del 2009, ci regala questa amara e meravigliosa immagine della ragazza con il drago tatuato come quella di un cavaliere solitario nell'oscurità. Grazie, David.

* Io, io, io. Io ho avuto la fortuna di poter mettere i miei piedoni taglia quaranta pochi giorni dopo la fine delle riprese nello stesso punto, per scattare una fotografia quasi dalla stessa angolazione, con prospettiva e luci molto simili... Tzé.

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