The Hobbit: An Unexpected Journey (2012, Peter Jackson)

In un buco del terreno viveva uno Hobbit...
  
The Hobbit: An Unexpected Journey si articola lungo tre lassi temporali: il passato passato, il passato intermedio ed il passato quasi presente. Nel passato passato si racconta di Erebor, il regno di Thrain, Re dei Nani sotto la Montagna, al cui cospetto si presenta uno dei Re degli Elfi (credo), interpretato da Lee Pace (Pushing Daisies), che fa a Thrain uno sguardo così così. Poi arriva Smaug, il drago, e fracana tutto e nel bel mezzo della battaglia c'è di nuovo Lee Pace, Re degli Elfi (credo), che guarda - questa volta - Thorin Scudodiquercia, però sempre così così. Ecco, per me Lee Pace che guarda così così è meraviglioso. No, non meraviglioso perché lui è maschietto ed io femminuccia, meraviglioso perché coincide con un ideale di sublime estetico: Lee Pace vestito da elfo che fa lo sguardo così così. Giuro.

Sono passati dieci anni dall'uscita in sala de La Compagnia Dell'Anello, pellicola che, che lo si voglia o meno, ha cambiato parte delle regole del gioco. Sarebbe stupido e riduttivo fare un paragone tra le due opere, ma sarebbe altrettanto stupido e riduttivo negare l'impressione che si ha, nei primi minuti di Lo Hobbit, di essere tornati in un posto che si conosceva, dove si era già stati, a cui si era in qualche modo rimasti legati. Quel passaggio di un Frodo giocoso e scanzonato (Elijah Wood ringiovanito in digitale) ci tocca qualche corda dentro; rivedere Gollum dopo una decade ci fa rendere conto di quanto in realtà assomigli a Margherita Hack. Che si sia amanti di Tolkien (personalmente non sono mai andata oltre la mappa nelle prefazioni) o che si sia stati spettatori accidentali de Il Signore Degli Anelli, con un Un Viaggio Inaspettato si è consapevoli di essere davanti ad un'opera attenta ed accurata, che però, dal punto di vista emozionale, deve tanto (e forse troppo) al suo papà.

La controversa storia della realizzazione è nota: Peter Jackson si fa da parte per lasciare la regia a Guillermo Del Toro, per poi ritrovarsi a sostituire il suo sostituto, facendo tirare un profondo sospiro di sollievo ai fan(atici) della prima saga, Il Signore Degli Anelli.
Tratto da un raccontino di appena 342 pagine, Lo Hobbit cinematografico era stato inizialmente concepito in due volumi, per poi assumere il concept di trilogia in itinere, quando ormai si era in fase di montaggio. E allora come gestire la cosa? Come mettere la toppa? Interrompendo la narrazione del primo capitolo, Un Viaggio Inaspettato, prima del previsto ed inserendovi narrazioni ed aneddoti presenti in altre opere di Tolkien e non raccontati nelle pellicole precedenti. Un pastrocchio? No, certo che no. Un capolavoro? Beh, neanche.

A livello tecnico, Un Viaggio Inaspettato apporta due importanti novità: la pellicola introduce la tecnologia HFR a 48 fps (per i fortunati che vivono nel mondo civile, quello con le sale vere, e che hanno modo di apprezzarla) e l'utilizzo dello Slave Motion Control, per le scene nelle quali si è reso necessario differenziare le stature dei personaggi. Ma le lodi più sentite andrebbero fatte alla scenografia di Dan Hennah ed alla fotografia di Andrew Lesine, che vanno a disegnare, con colori accesi e luminosi ed ambientazioni sconfinate e oniriche, immagini che sarebbe difficile anche solo immaginare. Nel cast risulta impossibile additare il meno bravo ed una volta tanto persino il doppiaggio italiano convince senza snaturare.

Falle - o presunte tali - di sceneggiatura a parte, dentro Un Viaggio Inaspettato traspare un gusto visivo delicatissimo e tutto l'amore di Peter Jackson per J. R. Tolkien, per l'arte e per la misura. Dietro Un Viaggio Inaspettato, c'è quasi tutto; dietro Azog, l'orco albino monobraccio, invece (come ha giustamente sottolineato il saggio e attento Mr James Ford qui), c'è Manu Bennett, il Crixus di Spartacus, però vestito. No, scherzo.

Nel prossimo capitolo c'è Lee Pace elfo, ho controllato, ma mi sa che lo sguardo così così non lo fa più.

Etichette: ,